L’entusiasmo è tanto, troppo: a plaudire la nascita di una nuova web tax non c’è solo chi l’ha imposta, ma pure chi è destinato a subirla. Sono le stranezze della web tax globale.
È noto a tutti. Colossi come Facebook, Google, Amazon hanno sempre avuto un rapporto strano con il fisco. Campioni del web e delle ottimizzazioni fiscali, a quanto pare, poiché abili a spostare i loro profitti nei paradisi fiscali. Per anni molti Paesi, soprattutto quelli europei, hanno provato a tassarle.
Mediobanca, nell’ultimo rapporto sulle società del “websoft”, ha stimato che in soli 5 anni (2015-2019), le multinazionali sono riuscite a risparmiare 46 miliardi. E i tentativi di tassare le multinazionali del web sono sempre quasi falliti. Negli ultimi anni, però, qualcosa è cambiato. Paesi tra cui Francia, Italia e Germania hanno cominciato a trovare dei sistemi abbastanza efficaci per recuperare una parte dell’importo. Dopo Donald Trump, il nuovo presidente Joe Biden ha lavorato con l’Europa per un compromesso sulla tassazione dei colossi del web.
La web tax prevista dal G7
Lo storico accordo del G7 prevede che le società multinazionali (non solo digitali) paghino le tasse dove svolgono le loro attività commerciali. In particolare, si basa su due elementi principali: il primo è un’aliquota minima di almeno il 15%; il secondo è la tassazione del 20% della quota eccedente il 10% dei profitti nei Paesi in cui vengono realizzati. Quindi, saranno soggette a tassazione solo le aziende con un margine di profitto di almeno il 10%. L’accordo dovrà essere ora portato al G20, che si svolgerà a breve, tra 1’8 e 11 luglio, a Venezia.
Come ha giustamente precisato il ministro dell’Economia Daniele Franco, sarà comunque una forma di tassazione che richiederà qualche anno per essere operativa. Tuttavia, cercheranno di opporsi i Paesi che applicano un’aliquota inferiore (o pari) al 15%. Ad esempio, in Irlanda l’aliquota minima del 12,5% ha consentito al Paese di diventare la sede europea di Facebook e Google. E c’è anche l’Ungheria, con l’aliquota al 9%.
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L’aliquota minima globale
Per accontentare i Paesi contrari, Biden ha ridimensionato l’originaria proposta, abbassando l’aliquota dal 21% al 15%, venendo ad esempio incontro alla Repubblica Ceca che ha oggi l’aliquota al 19%. E aziende come Google, Facebook e Amazon si sono già espresse a favore dell’accordo, poiché molto vantaggioso (già quel 21% era molto inferiore alle aliquote presenti in altri Paesi). Perché, probabilmente, ci vedono lungo rispetto a quanto molti vogliano fare.
In effetti, l’aliquota minima globale del 15% è vicina alle aliquote agevolate di Irlanda, Svizzera e Singapore. Ed efficaci pianificazioni fiscali potrebbero consentire alle big del tech di aggirare anche questo nuovo ostacolo. Basti pensare a tal proposito che Amazon ha raggiunto nel 2020 un fatturato di 386 miliardi di dollari, ma con solo il 116,3% di margine di profitto. Insomma, le aziende potrebbero organizzarsi per rimanere al di sotto della soglia del margine di profitto indicata. E “liberarsi” delle digital tax nazionali, poiché, in sede Ocse, i 140 Paesi partecipanti hanno concordato che se sarà raggiunto un accordo globale, tutte le misure unilaterali saranno abrogate. Insomma, se gli Usa hanno lavorato bene, l’accordo potrebbe in realtà rilevarsi conveniente proprio per loro.
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L’obiettivo
L’aliquota globale minima del 15% ha l’obiettivo di opporsi ai paradisi fiscali, laddove se un Paese applica oggi un prelievo sui profitti societari inferiore al 15%, in base alla nuova regola, il Paese in cui ha sede principale la multinazionale potrà riscuotere la quota rimanente. Avrebbe quindi poco senso, a quel punto, dirottare gli utili nei paradisi fiscali. E la maggior parte di queste imprese ha sede negli Stati Uniti. Un rialzo della tassazione internazionale potrebbe servire a garantire concorrenzialità alle imprese USA. Insomma, per il momento gli USA stanno facendo davvero un buon lavoro. Anche se la partita è lunga, come si può intuire dalle affermazioni del presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen: trattandosi di imposte complementari, il nuovo accordo non determinerà un passo indietro sulla tassazione dei gruppi digitali.